Il dono della voce
- Roberto Salvo

- 27 set
- Tempo di lettura: 4 min
di Silvia Labriola
Avevo appena compiuto cinque anni. Era maggio. A settembre, i miei decisero che era tempo di lanciarmi nel mondo.
Mi iscrissero in prima elementare come uditrice, con l’idea che, se a fine anno avessi superato un piccolo esame, sarei potuta passare direttamente in seconda.
Una scommessa dolce e audace, come solo i genitori sanno fare quando credono nel proprio bambino.
Ero una bimba sottile, tutta gambe lunghe e nervose, sempre in movimento. A dieci mesi correvo già per casa, impaziente di andare, esplorare, capire.
Ma le parole, quelle, tardavano.
A tre anni dicevo solo “mamma”, il resto del vocabolario mi pareva superfluo.
Mi bastava quello. Stavo bene nel mio mondo quieto, fatto di silenzi scelti e pensieri che nessuno sentiva.
A quattro anni iniziai a parlare, ma non tutto funzionava a dovere: la S era in ferie permanenti e la R… la R si arrampicava sugli specchi, si avvitava in suoni buffi, sembrava arrivata dalla Francia per sbaglio. Eppure, non avevo bisogno di stare ore sui libri.
Imparavo ascoltando, osservando, respirando l’aria attorno.
Ero una di quelle bambine che vedono tutto, anche quello che gli adulti credono nascosto.
Una piccola perfezionista silenziosa: non per dovere, ma per istinto.
Fare bene le cose mi veniva naturale.
Il primo giorno di scuola me lo ricordo come un film.
La maestra ci prese per mano, una figura alta, seria, un po’ distante e ci guidò in fila verso le aule.
Ma a un certo punto, il caos: un gruppo di bambini più grandi passò di corsa, la fila si scompaginò… e io sparii.
Rimasi sola.
Un puntino in un corridoio troppo grande. Le porte chiuse, il silenzio.
Mi accovacciai in un angolo, in attesa.
Poi, inevitabilmente, piansi.
Senza scenate, solo quelle lacrime leggere che scivolano giù silenziose, e dicono tutto.Fu allora che arrivò lei.
Una ragazzina di quinta. Più grande, più sicura.Mi vide, si avvicinò piano, e senza dire nulla mi prese per mano.
Mi portò tra le classi finché non trovammo la mia.
La maestra non si era accorta di niente.
Nessuna domanda, nessun “dove eri?”. Solo la campanella e la lezione che cominciava. Quel giorno imparai qualcosa che mi sarebbe rimasto dentro:
se vuoi farcela, devi imparare a trovarti da sola. All’inizio provai per quella maestra una sottile antipatia.
Non era affettuosa, non aveva gesti morbidi.
Ma col tempo… iniziò a guardarmi.
Non con tenerezza, ma con attenzione vera.
E capii che i suoi occhi vedevano cose che noi, piccoli e timidi, ancora non sapevamo di avere. Non era il tipo da carezze, né da lodi facili.
Ma quando mi fermavo su un dettaglio, quando trovavo la parola giusta, lei c’era.
Pochi segni, ma chiari.
Mi lanciava sfide silenziose, e io, senza nemmeno accorgermene, crescevo. Nel giro di pochi mesi, le parole iniziarono a fluire. La S tornò. La R trovò una sua dignità, un equilibrio buffo e affettuoso che mi accompagna ancora.
Scrivevo con gusto. Leggevo tutto ciò che mi capitava sotto mano.
Il dizionario dei sinonimi e contrari era il mio gioco preferito.
Mi perdevo nelle sfumature, nei contrari, nei modi diversi per dire lo stesso pensiero.
Ogni parola diventava mia. La maestra chiedeva sempre aggettivi, contrari, frasi ricche.
Mi esercitavo su tutto: giornalini, libri che trovavo in casa, perfino Dylan Dog che piaceva a papà.
Ogni cosa era spunto, occasione.
A fine anno superai l’esame. Entrai in seconda con ottimi voti.
Ma più di tutto, avevo trovato la mia voce.
E la maestra… lei c’era e c è stata fino in quinta , sempre discreta e inflessibile, in ogni passo.
Anni dopo l’ho rivista.
Era invecchiata. I lineamenti più morbidi, lo sguardo meno acuto.
Ma negli occhi brillava ancora quella fierezza silenziosa.
Quella di chi ha passato la vita a costruire, senza clamore, anime forti.
Mi accolse con un sorriso pieno, e volle sapere tutto.
Ogni passo, ogni scelta, ogni traguardo.
E ad ogni mio successo le brillavano gli occhi, come se qualcosa di lei vi avesse preso parte. Al momento di salutarci, mi abbracciò. E io, con un nodo dolce in gola, le sussurrai piano all’orecchio:
“Grazie... Si racconta che tutte le sue classi hanno lasciato il segno: studenti che sono diventati medici, artisti, insegnanti, uomini e donne capaci.
Persone che lei ha formato con serietà, rigore e amore silenzioso.
Quando oggi riprendo tra le mani la foto della mia “primina”,
quando rivedo quella me piccolina con il grembiulino e lo sguardo aperto,
so che non sarei quella che sono senza di lei. Certo, devo tanto ai miei genitori, che hanno creduto in me fin dal principio.
Ma è anche e forse soprattutto grazie a quella magnifica maestra
se oggi so stare al mondo.
Se so scegliere le parole.
Se so resistere. Lei non accarezzava, ma accendeva.
Non lodava, ma credeva.
Non era lì per farsi amare. Era lì per formare. E ogni volta che scrivo, che penso, che trovo il coraggio di restare precisa in un mondo confuso…
so che c’è ancora un pezzetto di lei dentro di me.



Commenti